stories

Ogni tanto al mattino mi sveglio con una storia in testa, e devo scriverla subito.
Altre volte la storia arriva per strada e devo tenerla stretta per la coda, mentre corro per arrivare a una matita e una pagina di carta.

Ho pensato di fare uno spazio su lales.it anche per loro.

Eccole qui, in ordine sparso.

Lorenzo si ricorda i colori*

Lorenzo si ricorda i colori.

Si ricorda i pennarelli con cui all’asilo amava tanto disegnare.
Le maestre ripetevano:

Bambini, mettete i tappi! Guarda bene, lì c’è un arancione senza tappo. Uh guarda, sotto il tavolino ci sono un rosso e un azzurro, dai, tirateli su e metteteli nel barattolo!

E Lorenzo si ricorda delle sue manine che s’impegnavano a mettere bene tutti i tappi. Con la lingua stretta tra le labbra, nello sforzo di far bene.

Quelle mani oggi sono diventate tanto abili.
Quelle mani oggi sono diventate i suoi occhi.

Perché i suoi occhi stanno perdendo la luce.

Sono così brave le sue mani che Lorenzo riesce a costruire dei modellini stupendi.
Il mese scorso ha fatto un galeone enorme, quasi tutto da solo.
Sono fantastiche le sue mani, possono quasi tutto.

Le sue orecchie poi, si fanno ogni giorno più abili nel distinguere ogni piccolo suono.

Mani e orecchie sono fondamentali per Lorenzo, da quando il buio si è avvicinato sempre più.

Le allena ogni giorno, la mamma lo aiuta.
La mamma, che è sempre stata lì, mentre pian piano la luce se ne andava.

Ma né mani, né orecchie sanno vedere i colori.

E Lorenzo ha paura di dimenticarseli.

Un giorno lo ha detto alla mamma.
Da allora hanno inventato un gioco.
Quando sono in giro insieme la mamma racconta i colori che vede, e lui deve continuare.

-Aspetta, il semaforo è diventato rosso, come?

Rosso come la mia maglietta preferita? Quella dell’asilo con Saetta?

Quasi, ma non proprio, questo è un rosso più scuro.

Rosso come la tovaglia di Natale?

Neanche, prova ancora.

Ci sono! Rosso come i chicchi di un melograno!

Perfetto! Bravissimo! Ma adesso è diventato verde, come?

Verde come una rana!

Sì va bene, ma quale rana?

Chiede la mamma, perché lei lo sa che è diverso ricordare un simbolo, la rana verde, o richiamare una memoria precisa, a cui sono legate delle emozioni. Quelli sono i ricordi che contano, che possiamo davvero conservare per sempre. E lei lo ha promesso al suo bambino che non gli avrebbe fatto dimenticare i colori.

La rana del libro di cartone coi buchi, che mi leggevi la sera quando ero piccolo! La rana Rita!

Sìì! Questo semaforo è verde proprio come la rana Rita.

E così Lorenzo allena la sua memoria a non perdere i colori, perché lui lo sa che la memoria tende a conservare di più le informazioni utili per sopravvivere. Ma non vorrebbe mai che il suo cervello pensasse che i colori non gli servono più.

Per Lorenzo i colori sono importanti.
Perché lui lo sa che rivedrà la luce. Che la cura è in arrivo.

Le sue orecchie acute li hanno sentiti parlare la sera.
I suoi genitori, quando pensavano che lui dormisse.
La ricerca è ancora in fase sperimentale, ma i risultati sono incoraggianti.

Un giorno Lorenzo potrà rivedere la luce.

E quel giorno lui vuole riconoscerli tutti, i colori.
Non vuole perdere neanche una sfumatura.

Il rosso della maglietta di Saetta, ma anche quello della tovaglia di Natale, che è un pò più scuro di quello delle candele, ma più chiaro dei chicchi di melograno.

Il verde del semaforo, e della rana Rita.

L’azzurro del cielo di quella volta che con suo fratello si sono arrampicati sugli scogli, a cercare i granchi anche se l’acqua era ancora fredda.

L’arancione del melone, che la nonna d’estate tagliava a fette per la merenda sotto la pergola in campagna.

Il viola delle macchie sulla maglietta, quando raccoglievano l’uva e la mangiavano direttamente nella vigna del nonno.

Il nero del pigiama che ha messo ad halloween, quello con lo scheletro che si illumina al buio.

Il marrone del cioccolato fondente del suo uovo  di Pasqua, più scuro di quello di suo fratello, perché a lui piace al latte.

Il bianco della panna montata sul cono della gelateria davanti a scuola.

Il rosa delle ciabatte della piscina, la mamma di fretta le aveva comperate online ed erano arrivate del colore sbagliato, lui le aveva odiate, ma ora voleva ricordarsi anche di quel rosa.

 

*ho scritto la storia di Lorenzo nel febbraio 2017 per la campagna #fightforlight

 

Sei gradini

Ogni mattina i piccoli salgono sul marciapiede vestiti di tutto punto per andare a scuola. Gli zainetti colorati con le facce dei mostriciattoli, ultimi eroi dei cartoni animati.
I capelli lucidi ravviati con cura, le bimbe con codini e trecce fermati da elastici e forcine, anche quelli con i pupazzetti dei cartoni, i bambini con un taglio corto corto, fresco di barbiere.

La somiglianza tra loro è tale che, ai nostri occhi occidentali, è difficile capire se sono fratelli, cugini, o semplicemente amici.
Si aspettano l’un l’altro, impettiti. Sul marciapiede.
Aspettano fino a che non è pronto anche il grande che quella mattina li deve accompagnare a scuola, mamma, papà, zio, zia.
Si vede che non stanno più nella pelle.
Aspettano pochi minuti, seri, fieri del loro ruolo di studenti, ma soprattutto felici.
È questo che si nota di loro, ogni mattina sono felici di andare a scuola.

Gli altri scolari che si incontrano per la via hanno facce assonnate, immusonite. Sono trascinati da un genitore, che li tira per un braccio o li fa avanzare con la voce, con rimproveri dal suono quotidiano, come pecorelle recalcitranti.
Alcuni particolarmente arzilli sommergono il padre di domande o racconti complicatissimi, a cui richiedono partecipazione.
Fino a quando lui, il babbo, che riescono a vedere solo la mattina, ad averlo tutto per loro lungo quel tragitto, non dice:

-“sì va bene, ma adesso cammina che è tardi!”

Ognuno ha un suo modo di percorrere la strada verso la scuola, ma nessuno ha negli occhi la felicità di quei piccini.
Gli stessi genitori hanno espressioni differenti.
La maggior parte non sembra affatto felice della levataccia a cui costringe l’orario scolastico. Le distrazioni del pargolo sono immediatamente tramutate in minuti di ritardo in ufficio:

-“ma come non hai preso la merenda!? Ancora?! Anche oggi!, sei proprio il solito!”.

Quelle mamme e papà, o zii e zie invece sono affatto diversi, quando salgono sul marciapiede per accompagnare i bambini a scuola sembrano imbarazzati, un misto tra fieri e impauriti.
Li trattano con estrema cautela, una sorta di disagio, per quelle creature che sono sì del loro stesso sangue, ma vivono sopra il marciapiede.
Salgono i gradini la mattina ed entrano in un’altra vita.

Una vita al livello del suolo, con aria, luce, sole e pioggia, vento e neve, quando c’è.
Una vita visibile, fatta di scuola, in cui imparano la lingua del paese su cui camminano.
Il sottosuolo invece ne parla un’altra.
E non imparano solo la lingua delle emergenze o delle prime necessità, delle comunicazioni ufficiali, dei permessi di soggiorno, dei visti.
Ma anche la lingua delle poesie e dei pensierini, dei temi e dei biglietti agli amici.
Così la loro vita visibile si riempie di cose visibili, quaderni di scuola pieni di parole, compagni di classe, amici con cui parlare.
È per questa vita visibile, che gli adulti conducono la loro esistenza invisibile, al di sotto del marciapiede.

Passando davanti allo stabile, d’epoca ma ristrutturato, stile vecchia Milano reciterebbe un annuncio immobiliare, passando di lì, dalle finestre rasoterra, sempre pulite e con le tende in ordine, si sente provenire incessante un particolare rumore, quello delle macchine da cucire.
È un sottofondo costante, quando smette è per poco e sempre dopo lo sprigionarsi di un inconfondibile odore di cucina.
Dopo che i bambini sono tornati da scuola.

Nella via si parla, non molto per la verità, dei nuovi inquilini.
I più giovani si domandano:

-“vorrei vedere il contratto d’affitto che gli hanno fatto per quella cantina! Chissà quanto gli spillano!”

Due anziane signore:

-“Ma li ha sentiti? Lavorano giorno e notte!”

-“E già, sun propi bravi, ma lo sa quanto li pagano!? 200 lire al pezzo!”

-“Povera gente. Mi ghe l’ho deto l’alter dì, ma lasiateli venire in cortile a giocare quei bambini lì, pore gioie, sempre sottoterra!”

Per una volta ancora, i bambini possono sfuggire all’esistenza invisibile e per qualche ora in più restare nella vita di sopra, al livello della strada, del cortile, degli amici.
Possono salire quei sei gradini che separano il visibile dall’invisibile.

Sono quei gradini la causa dell’imbarazzo di chi li accompagna a scuola.
È un compito fondamentale, un onore e una grande responsabilità.
Bisogna avere l’abito adatto e conoscere l’italiano, non si sa mai, nel caso ci sia qualche avviso da leggere, o la maestra voglia parlare coi genitori.
Bisogna fare attenzione, che ai bambini non capiti niente di male, attraversare la strada con prudenza, arrivare puntuali.

Ma soprattutto bisogna salire quei gradini, entrare nel mondo visibile, così caotico, così diverso, dove tutti ti guardano strano.
All’inizio era più facile, certo sapevano poco la lingua e ancora sbagliavano strada, ma i bambini erano più piccoli e si fidavano ciecamente, erano ingenui allora.

Una volta, la prima in cui li hanno portati in centro città, era una domenica poco prima di Natale, tutto brillava di decorazioni luminose, alberi enormi addobbati erano dovunque, e faceva freddo, un gran freddo.

Hanno portato i bambini a fare un giro nel grande magazzino, il più bello della città, che a Natale esagera con le decorazioni.
Erano in due ad accompagnarli, avevano tirato a sorte,  avevano solo due permessi di soggiorno e potevano uscire di casa solo a turno.
In quelle settimane natalizie la polizia si accaniva sempre di più con gli stranieri. Forse per ripulire le strade per lo shopping, o per aumentare, entro la fine dell’anno, il numero degli espulsi da registrare nelle statistiche.
Comunque non potevano rischiare. Nel negozio erano stati tutto il pomeriggio, su e giù per le scale mobili.
Non si era neanche posto il problema di comperare qualcosa, era chiaro a tutti, grandi e piccini, che quella roba era al di fuori della loro portata.
Alla fine, dopo un’ora nel reparto giocattoli, si erano avviati all’uscita, ma una delle bambine, interdetta, si era fermata e aveva domandato: “ Ma non dobbiamo pagare?”

-“ Per cosa?”

-“Per tutto quello che abbiamo guardato”

Ma quelli erano altri tempi, allora si sentivano ancora completamente genitori.

Adesso invece erano i bambini a saperla lunga, a parlare coi negozianti quando si faceva la spesa, e anche tra di loro, a volte, comunicavano in italiano.
Accompagnarli a scuola era diventato come fare da scorta a un tesoro, a un investimento.
Quello per cui loro, gli adulti, lavoravano giorno e notte.
Non che i bambini fossero diventati superbi o maleducati, anzi pur nell’entusiasmo e nella felicità che li travolgevano lungo la strada, prestavano sempre attenzione a non mancare di rispetto al grande che era con loro.
Era proprio questa la stranezza, gli altri scolari erano di cattivo umore e dispettosi la mattina presto.
Non si preoccupavano certo di non disobbedire.
Loro invece erano felici e, come per un tacito accordo, avevano cura di non mettere mai palesemente in dubbio l’autorità del loro accompagnatore.
Anzi l’impressione era che tentassero di rassicurarlo sulla sua importanza.
E cos’era questo se non la conferma che in realtà ormai l’autorità conta poco?
Che si è intromesso qualcosa.
Ormai fra loro c’è una distanza, in salita, di sei gradini.
Che i bambini percorrono sempre con gioia, gli adulti, sempre con timore.

Milano Settembre 2001

 

D’inverno

Evidentemente il porco non si era reso conto di non essere solo quando aveva parcheggiato.
Al rumore dell’auto dei giovani, si scosse ed ebbe un’espressione interdetta che ben poco si confaceva alla sua posizione.

La coppia era arrivata poco prima.
Stava approfittando della meravigliosa giornata, per una gita domenicale nelle periferie svuotate dal mese di luglio.
Il cielo era di un blu intenso, percorso da veloci nuvole bianche spinte da un vento, gradito quanto insolito per Milano,  che si dice sia tra le città meno ventose del mondo.
La luce estiva rendeva belli persino i quartieri più tristi, esiti delle peggiori stagioni di speculazione.

Per questo, consultate le guide alla ricerca di una meta montana o lacustre, avevano desistito.
Preferendo un’altra gita, alla scoperta di uno dei mille volti di quella strana città, in cui erano nati, si erano amati, sposati e probabilmente avrebbero messo al mondo il loro figli.

Oggi il sole dava coraggio, e girando con la loro auto ai margini della città, finestrini e tetto aperti, continuavano a ripetersi,

“Non è poi così terribile qui!”

“Guarda che bello, lì c’è ancora una vecchia casa, un pezzo di prato!”

“Uh guarda, un campo falciato, e sei a un passo dalla metropolitana, in mezzora arrivi dovunque!”

Ogni volta poi, dopo un istante di silenzio, uno dei due diceva:

“Sì, però, chissà d’inverno?!”

“ …con la nebbia…”

Come se quell’assaggio di altre vite, di altre possibilità, altri percorsi al di fuori dei loro, dei quartieri rispettabili in cui si muovevano, lavoravano, abitavano, incontravano amici, come se annusare la possibilità di qualcosa d’altro, fosse già troppo.
Ricordiamoci, si dicevano, che questa luce incredibile dura poco, poi torna l’inverno, il buio alle cinque, la nebbia. Tutto torna grigio, anche quella vecchia casa e il suo pezzo di prato.

La metropolitana sembra vicina, ma chissà questa strada col buio?”,

“ora non c’è nessuno, ma chissà che gente la frequenta d’inverno?”,

chissà…

Così meglio tornare alle vite e ai quartieri rispettabili, in cui essere i più sinceri democratici, i migliori, quelli che riciclano la spazzatura e discutono su cosa sia meglio votare, perché comunque “non votare non si può”

Quelli che hanno la casa senza ascensore,

così ci possiamo permettere una stanza in più”,

e però “ci vogliono almeno due macchine per essere indipendenti”.

Che se chiedi dove abitano ti rispondono con il nome della piazza più vicina, che in realtà non è proprio la più vicina, ma quella verso il centro città, e allora meglio dare quella come riferimento, neanche fossero degli agenti immobiliari. Poi però ti raccontano che è bello abitare lì, perché ancora è una zona popolare,

“sei a tre fermate dal centro, ma c’è ancora la gente normale, i vecchietti al bar, le famiglie numerose e meridionali, il mercato, la malavita”.

Ogni tanto però prende la curiosità, forse il senso del dovere, di andare a vedere come vivono gli altri.

Come sono davvero “quei quartieri che abbiamo studiato all’università”,

esempi di razionalismo, poi mostri da abbattere per tutti i giornali. Andare a vedere come sono adesso,

-“quando li abbiamo studiati ci ripetevamo: noi faremo di meglio!. La gente sarà felice nelle nostre case!”

Oggi però non costruiamo case per la gente, ma ristrutturiamo appartamenti per signore ricche e viziate che lavorano nella moda, o negozi di moda per vestiti troppo cari anche per le signore ricche e viziate.

 

Questa domenica invece è tornato loro uno spirito sopito, “ritroviamoci, troviamo ciò che eravamo e volevamo essere, torniamo a vedere le case per la gente”.

Girando raccolgono immagini preziose da riportare a casa.
Delle balle di fieno su un campo, arrotolate come le fanno le macchine moderne, sullo sfondo delle gru stanno costruendo delle nuove case, un poco più vivibili.
Nel silenzio e nel blu del cielo domenicale, le gru se ne stanno ferme ferme come torri medievali.
A lato la tangenziale, quasi deserta.

Poco più avanti, dopo il campo, le gru, la tangenziale, un’inattesa macchia di verde, prati, alberi, qualche campo coltivato, un canale a lato della strada.
Un cartello informa, hanno appena superato il confine di uno dei parchi di cintura, estremi tentativi di garantire ai cittadini una qualche possibilità, per continuare a respirare.
Puntuale dietro una curva spunta una famigliola in bicicletta, il bambino piccolo sul seggiolone dietro al padre saluta i ragazzi nell’auto.

Ad un bivio con una svolta a destra, direzione centro città, preferiscono proseguire diritto. I ciclisti li hanno messi di buon umore, ora hanno voglia di ritardare il rientro, fare il giro largo e prolungare ancora un poco l’evasione.
È così che arrivano alla cascina.
Alla sinistra della strada, non poteva non attirare la loro attenzione, è un borgo abbandonato, un po’ rurale un po’ urbano.
Se ne sta lì sotto il sole con il rosso scolorito dei suoi mattoni, in mezzo ai campi al margine della città.
Imboccano il viottolo, sembra tutto deserto, una casa popolare di ringhiera, distrutta, un’altra più signorile con i cornicioni in briciole, la chiesetta, dal tetto sfondato spunta un albero, sopra una porta si legge ancora l’insegna “VINO”.
Un cane sdraiato all’ombra li osserva serafico, ha il collare,

-“ma allora c’è qualcuno! Andiamo a vedere!”. 

Scendono dall’auto.
La grande corte è più pulita, i silos di cemento sembrano nuovi, nella rimessa in bell’ordine, delle macchine agricole, sotto una pianta delle sedie e un tavolo di plastica bianca, una casetta ha le tende alle finestre.
Qualcuno deve abitarci.
D’improvviso, da dietro la casa sbuca abbaiando un vecchio grosso lupo, il ragazzo si dà alla fuga, lei gli urla di non scappare

-“altrimenti ci morde!”,

ma alla fine non può fare a meno di correre.
Raggiunta l’auto mettono in moto e fanno inversione.
Sul viottolo, ferma, una vecchia Volvo grigio chiaro, il modello di almeno dieci anni.

“Ma questo prima non c’era?!”

Il porco seduto al volante assomiglia ad un vecchio comico siciliano, una macchietta di triste categoria, lavorava, il comico, sempre in coppia con un altro più robusto faccia tonda, lui più secco, i baffetti e i capelli eternamente neri, erano famosi per una smorfia con gli occhi storti e una risata sghemba, e per le parodie di western famosi.

Su di lui, col viso chino tra le sue gambe, la ragazzina.
Alza la testa al passare dell’auto.
Per un istante le due donne incrociano gli sguardi.
I ragazzi proseguono, solo più avanti, sulla strada principale, riusciranno a parlare, a ricostruire ciò che hanno appena visto.

-“Quanti avrà avuto? L’hai vista?”

-“Dovevo fotografarlo, prendere la targa!”

-“Lei era più giovane di me di sicuro”

-“Dici che era minorenne?”

Continuano a parlare,…

-“sai sentivo alla radio l’altro giorno… Il problema è che in Italia non è reato. Non c’è modo di punire il cliente. In Svezia invece…”,

-“cioè anche se avessimo fatto le foto…”

L’auto entra in città, semaforo dopo semaforo si avvicina ai confini protettivi della circonvallazione.
Ecco, adesso sono tornati, al sicuro.

-“Ma tu l’hai proprio vista? Io no era abbassata”

-“Sì, ci siamo guardate, negli occhi”

Ora sono a casa, la ragazza ha un pensiero, che la rende diversa,

-“dove sarà lei, la ragazzina, quest’inverno?”,

-“dove sarò io?”

Chissà.

Milano, 15 luglio 2000