È partita, È arrivata, Si è portata dietro dodici sedie e un tavolino, non li hanno neanche fermati alla frontiera. Non c’è posto per niente di tutto ciò. E non abbiamo ancora cominciato i lavori. Sarà un bel cantiere.
All’annuncio: ” ci metterò dieci anni a restaurarla”, ho ricominciato a fare lo struzzo ché ci ho molte lezioni da preparare. Ho donato manodopera adolescente per lo scarico.
Non scrivo mai del mio matrimonio, al mio consorte non piace, e lo rispetto. Quando però ci si sposa da giovanissimi e nel bene e nel male si resta insieme ben oltre la giovane età, succede che in alcune abitudini, comportamenti, modi di fare, non sia più così semplice dire dove comincia una persona e dove finisca l’altra. Nel nostro caso poi molti elementi complicano questa distinzione; abbiamo studiato nella stessa università, con gli stessi professori, abbiamo lavorato insieme per quasi vent’anni, abbiamo fatto e disfatto case nostre e per altri discutendo su ogni interruttore fino allo sfinimento. Abbiamo un modo di fare progetti insieme che sembriamo Sandra e Raimondo che si rubano la coperta sul lettone. Condividiamo la perversa passione per gli annunci immobiliari. Strada facendo io ho scoperto che quell’immaginarmi storie per ogni casa che vedevo, poteva diventare immaginarmi storie e basta. Non ho sempre bisogno di passare dai tempi lunghi del cantiere per vedere il risultato, mi bastano le parole, a volte i disegni. Ho scelto di guadagnarmi da vivere altrimenti. Anche se le abitudini sono dure a morire, ufficialmente fare l’architetto non è più il mio primo mestiere.
Questo cambio di prospettiva ha avuto immediate conseguenze nel mio modo di fare progetti col mio consorte – sì anche se mi son chiamata fuori, abbiamo sempre una casa da ristrutturare insieme e viviamo perennemente in cantiere. Con libera e serena determinazione ho affermato qualche mese fa:
–Sai che c’è? A me non va più di discutere con te su ogni interruttore, l’ho capito che a te serve il contraddittorio per pensare, ma per me non è così, mi sfinisce. Quindi in questa casa fai quello che vuoi, tanto lo sai cosa mi piace, io mi tengo qualche scampolo di decisione, disegno le piastrelle, qualche tappezzeria, ma soprattutto decido la cucina. E non fingere che tutto il lavoro ricada su di te, tanto lo so che comunque toccherà a me avere a che fare con gli esseri umani, chiedere i soldi in banca, tenere buoni i vicini, controllare la tabella di marcia, avrò già abbastanza da fare così. Dovresti essere felice, delega e fiducia completa.
Per parecchi mesi il mio alacre consorte ha disegnato ogni chiodo della nostra casa. Ogni tanto mi faceva vedere, io proponevo qualcosa e lui rispondeva che come sempre avevo fatto lievitare il preventivo di cinquantamila franchi. Nella sua foga di avere tutto disegnatissimo, regolarmente si avventurava nel progettare la cucina, ma io difendevo ogni piastrella, inflessibile come neanche Giovanna d’Arco:
-No, non mi avrai, sono ventitré anni che facciamo case raccattando al mercatino, dalla zia, arronzando e sistemando e non finendo mai una cosa prima di traslocare. Questa volta voglio una cucina indistruttibile e funzionale, da battaglia, la voglio in inox, lavabile col lanciafiamme. Non come al solito montata da noi, che poi rimangono gli spifferi dove mi si infila il rosso d’uovo mentre preparo la torta al cioccolato 9 minuti e lo ritrovo mummificato anni dopo nel trasloco (tutto vero). E non mi imbonire dicendo che è una rivendicazione poco femminista , alla fine quella che passa più tempo in cucina sono comunque io. Quindi la scelgo io, da qualcuno che di mestiere fa cucine, non sarà riciclata, rappezzata, fattene una ragione, potrei anche finire a scegliere la più amata dagli italiani, verranno dei professionisti a montarla e tu non avrai voce in capitolo, perché non puoi fare a meno di fare il raccattarumenta. Quando disegnerò il pavimento, potremo parlarne, forse parteciperai alla scelta dei colori delle piastrelle, se ti comporti bene.Ma soprattutto la voglio nuova, almeno quella, almeno una volta in vita mia.
C’è da dire che la faccenda del comprare tutto al mercatino mi vede complice se non mandante da più di vent’anni. Prima era un nostro innocuo passatempo; poi è passato in versione 2.0 e io ho dimostrato una preoccupante fortuna nel vincere le aste online. Ho smesso quando una venditrice di lampade danesi me ne ha mandata una in omaggio come best buyer of the year e ho temuto che da lì al video poker il passo fosse breve, per fortuna compravo per i nostri clienti.
Il mio consorte quindi sa bene quali tasti toccare. – Ci sarebbe una cosa? – Cosa? – Ho trovato in vendita una cucina di Francoforte…
Per le persone normali, la cucina di Francoforte potrebbe essere un modo di cucinare i wurstel. Per gli architetti della nostra generazione e almeno un paio di quelle precedenti, è LA CUCINA. Se i normali la cercano su internet, non la trovano per nulla speciale. Una semplice cucina componibile come tutte oggi.
Solo che le cucine oggi sono componibili perché nel 1926 Margarete Lihotzky – la prima austriaca a potersi dichiarare architetta, e pure femminista – ha disegnato una cucina standardizzata per alcuni quartieri di Francoforte, le Siedlungen di Bruchfeldstrasse, Praunheim e Ginnheim, progettati da Ernst May. Non è una cucina componibile, è l’archetipo delle cucine componibili, l’ha progettata una donna e la si trova al MoMA di New York e in parecchi altri musei.
Ho alzato gli occhi al cielo e taciuto, mentre per una settimana l’internazionale dei raccattarumenta ha seguito con trepidazione la nostra asta; dall’Italia mio suocero si è detto disposto a ospitarla in campagna se non avessimo trovato posto da noi, poi in qualche modo si fa, ci vorrebbe un appartamento di sessanta metri – ho temuto lo comprassero apposta; il collega berlinese ha messo a disposizione il furgone per andarla a ritirare, non vuoi mai che te la rovinino nella spedizione; l’altro collega svizzero, che da anni la studia e la insegna, sembrava pronto a smantellare la sua cucina per farle posto, per fortuna sua moglie è solida. La cucina di Francoforte è stata oggetto di conversazione anche durante il primo caffé al bar dopo mesi con amici non architetti, festeggiavamo la partenza di tutti i figli per gli scout e l’inizio di un weekend che è finito piuttosto alcolico, chi per festeggiare, chi per dimenticare la cucina di Francoforte.
E ieri sera, ahimé, mio marito si è aggiudicato l’asta al costo di una cucina componibile svedese che arriva nei cartoni piatti. ( il che per altro significa inequivocabilmente che è molto sgarruppata, altrimenti se la comprava il MoMA) Solo che questa cucina è a Colonia e tocca andarla a prendere, qui lo spazio per accoglierla è ancora da costruire, aspettiamo i permessi dal comune. So già che finiremo a dormire in macchina per farle posto. Intanto padre e figlio stanno organizzando un tour, che quando ci ricapita di andare in Germania col furgone, possiamo passare in un sacco di robivecchi e ciclisti. L’itinerario prevede anche un passaggio a Berna alla cinque giorni di extinction rebellion, perché a diciottanni le priorità sono molte. Io ho detto che se si fanno arrestare, li lascio lì, loro e la cucina e mi compro a rate la più nazional popolare delle cucine.