La strada di casa. O la ruota gira.

Venerdì l’Italia si godeva il ponte del 2 giugno, mentre qui al nord si lavorava e succedevano un sacco di cose, di quelle che cambiano la vita.
Il tutto mi ha lasciata un po’ tuonata e visto che qui il ponte è domani per Pentecoste, mi concedo forse di dormirci un po’ su prima di decidere che effetto mi fa.
La considerazione più profonda che mi viene da fare ora è che a me la vita vera arriva a ondate.
Sembra che non succeda nulla per un sacco di tempo. Io insisto, tiro il carretto fino allo stremo, corro come una matta da una parte all’altra e non smetto anche mentre picchio la testa contro porte chiuse.

Poi quando decido quasi di mollare, mi fermo un attimo e…la ruota gira, si mette in moto, e succede di tutto, tutto insieme.

Succede ad esempio che il 16 maggio sia lunedì, e io vada a trovare una classe in una scuola il riva al lago, che ha letto #ilcodicedelleragazze.
E succede che come sempre mi diverta e anche che la loro insegnante mi dica, ” sai è l’ultimo anno per me, ma purtroppo non so chi riprenderà le mie classi di italiano, il direttore non lo ha ancora comunicato”,
e io chieda: ” credi che sia il caso che gli mandi il mio dossier? L’ho già fatto l’anno scorso, non vorrei essere insistente”, e lei risponda: ” Mandalo, non si sa mai”.

sulla strada di casa

Poi due giorni dopo io parto per Milano, e non penso più a nulla. #gaiadeglialberi va al #salto22 e poi in giro per librerie e biblioteche. E mi piace così tanto che non vorrei far altro.
E comincio a chiedermi se forse la mia avventura svizzera non potrebbe anche ridimensionarsi. Potrei fare più spazio per i viaggi in giro per le scuole italiane.
E il pensiero rotola nella mia testa, sempre più insistente. Dal 2019 ho pubblicato quattro libri, e ancora faccio la scrittrice solo nei ritagli, dopo aver messo la cena in tavola per tutti e mentre mi affanno per cercare un posto in un paese che mi fa ancora sentire straniera.

E penso. Dopo sette anni se la Confederazione mi vuole deve mandarmi un segno, perché io di questa doppia vita sono un po’ stufa e voglio vedere le mie amiche che sono ancora più in Italia che qui.
E voglio portare Gaia a zonzo per quelle classi sgarruppate ma piene di vita, e scrivere la prossima avventura di Lin, Nina, Carlotta e Chiara. E andare al mare.
E il pensiero nella mia testa si fa una bolla di fuoco.
E così annuncio a mio marito che il prossimo autunno io non rincorrerò più supplenze a destra e manca, ma me ne starò di più a Milano e da lì chissà. Che se la veda lui coi ragazzi, sono grandi e lui è stato a zonzo per i primi dodici anni. E la mia vita è adesso.

Poi do un’occhiatina all’email della scuola. E la ruota gira.

E venerdì mattina ho firmato il primo Contratto a Durata Indeterminata della mia vita. È un contrattino, avrò solo due classi. Ma finché ne avrò voglia, insegnerò italiano e sarò nella scuola in riva al lago dove tutto è cominciato.
I miei figli si sono diplomati lì, ci abbiamo fatto le foto con la nonna e il vestito bello, in tempi che sembrano remoti, prima della pandemia.
Prendo il posto della prima insegnante di italiano di mio figlio maggiore. Lei che è stata la luce nel tunnel dei nostri primi giorni di scuola qui e che ora mi passa il testimone. E anche io comincio ad avere un posto con dei ricordi a nord delle Alpi. Un lavoro a cui posso andare a piedi camminando lungo il lago.

E nella stessa giornata, mentre in sala professori del liceo ritiravo e stringevo al petto il pacco dei primi compiti di maturità di cui sono responsabile – il che già di per sè accelerava il battito – suona il telefono:
– Bonjour, Madame Spadà? – voce femminile dal forte accento non francofono
– Oui, bonjour?
– C’est la Police de M ( e lì il cuore ha fatto due rimbalzi gola-talloni prima di arrestarsi per qualche secondo, mentre il video proiettore che mi hanno installato nel cervello il giorno del parto mandava immagini splatter di figli spiattellati sull’asfalto – quello che è a Brema per certe gare di bici di cui preferisco non sapere – o fatti a pezzi in vari modi – quello che è abbonato al pronto soccorso e sabato scorso ha passato la notte in ospedale sotto osservazione per trauma cranico – la mia ragazza per fortuna era localizzata a letto con l’influenza)
– Oui ?- rantolo
– C’est la maman de… ?( a quel punto non ho più sentito nulla e ho cercato la sedia più vicina per evitare di cadere come una pera in mezzo alla sala professori perdendo controllo del pacco di compiti, certa che il peggio stesse per venire.) …c’est pour les dossier…
– MADAME! Ma lei signora poliziotta dove ha studiato?! Ma non lo sa che non si chiama una madre senza iniziare la conversazione con “non è niente di grave”?! Ma sono vent’anni, dall’asilo nido, che quando arriva la telefonata della maestra che dice che non è niente di grave il mio videoproiettore parte comunque in full mode splatter, ma almeno io lo tengo a bada!
– Veramente volevo dirle che i dossier per la naturalizzazione dei suoi figli sono a posto e se passate a firmarli io posso mandare avanti la pratica di cittadinanza.

Ecco quindi, da venerdì io sono dipendente della Confederazione e la mia ragazza e i suoi fratelli sono più vicini a diventare svizzeri, perché qui i giovani hanno la cittadinanza dopo cinque anni di residenza.
Resta in sospeso la pratica del figlio in giro in bici, che come suo fratello ha visto bene di comunicare alla poliziotta, ” quello non lo vediamo mai”. Ma se non parte un supplemento di indagine per vagabondaggio, su segnalazione del fratello tredicenne, anche lui dovrebbe firmare a breve. E io dovrò trovar modo di far pace con questo paese che mi dà lavoro e diverrà Patria per i miei figli.

Ciò non toglie che il calendario scolastico abbia un sacco di vacanze e io continuerò a tornare in Italia ogni mese e magari ci porterò in gita i miei studenti. Intanto però la mattina per andare al lavoro farò questa strada:

cose di cui essere grata: la strada per tornare dal lavoro

E sarà più facile essere grata.

Il coraggio di raccontare storie

Ho scritto l’ultimo post il 16 maggio e mi ero ripromessa di passare di qui regolarmente, ma le cose mi sono davvero sfuggite di mano e hanno preso una piega attesissima (chissà perché si dice sempre piega inattesa), nel senso che ciò per cui lavoravo parecchio e da parecchio tempo, dopo molti bassi e pochi alti, diverse porte sul naso e momenti di scoraggiamento, ha cominciato a girare per il verso giusto e a farlo vorticosamente, con me nel mezzo della giostra.

Quindi ricapitolando, dal 16 maggio 2019 sono ufficialmente una scrittrice, non che https://www.faccioquellocheposso.com/ non fosse un libro e non l’avessi scritto io, ma mi sembrava più che altro un diario, appunti messi insieme, e https://www.faccioquellocheposso.com/raccontiamoinsieme-la-mia-storia/ ha tutti i miei disegni, ma è più che altro un album, e non mi sembrava bastassero; ma dal sedici maggio ho un romanzo in libreria, bisogna che mi abitui: con #IlCodiceDelleRagazze @SolferinoLibri sono diventata una scrittrice.

E mentre io mi allenavo a ripeterlo,
sono una scrittrice, sono una scrittrice, sono una s…
ma faticavo ancora a crederci, pare che altri se ne siano accorti e ci abbiano creduto. Anche a nord delle Alpi.
Prima di tutto la super prestigiosa https://prohelvetia.ch/it/ mi ha fatto l’enorme onore di premiare un mio progetto letterario, ancora super segretissimo, che mi riempie talmente di gioia e orgoglio che temo di scoppiare, e ci sarà anche la cena coi vincitori, a Zurigo.


Poi, come insegna la storia della letteratura da Dante in poi, gli scrittori devono trovarsi un lavoro che consenta loro di scrivere.
E io, dopo infinite riflessioni e rimescolamenti, sensi di colpa, dubbi, incertezze, ho capito che fare l’architetto qui in Svizzera e la madre di tre figli, senza famiglia di supporto e senza il mio quartiere, in una lingua che non è la mia, non sarebbe minimamente compatibile con la scrittura. Ho deciso di cambiare mestiere e diventare insegnante di arte e italiano, per i più giovani, che alla fine vuol dire restare in mezzo alle mie storie, che sono scritte in italiano per il giovane pubblico e ogni tanto illustrate da me.
Ma ha anche voluto dire ricominciare da capo, perché la mia laurea e miei master, il mio dottorato e il mio post-dottorato, qui in Svizzera non bastano per insegnare. E ho ricominciato, è stato faticoso, ma mi è anche piaciuto.
E ora ho le mie prime classi in una scuola che in Italia definirebbero molto mista o forse difficile, e a parte la fatica di farlo in francese e imparare nomi di allievi di una cinquantina di origini diverse, mi piace moltissimo, e il primo giorno un piccolino di dieci anni ha alzato la mano per dirmi:
– Vous avez le même prénom de ma maman! E da lì in poi è stato tutto in discesa.

Ma mentre le sorprese non finiscono e Il Codice delle ragazze http://www.solferinolibri.it/libri/il-codice-delle-ragazze/ riceve un sacco di complimenti, io ho la gioia di ricevere messaggi di lettrici che mi chiedono di continuare le avventure di Carlotta, Chiara, Lin e Nina.
E quindi sabato prossimo avremo il primo laboratorio di Mosca Cieca in codice addirittura nel giardino della Triennale a Il Tempo delle Donne.

And last but not least, sono stata invitata qui:

una festa karaoke con Dj set che comincia alle 22.30, roba che a quell’ora io son già in pigiama e invece mi berrò un caffè e andrò a ballare come non ci fosse un domani, e il coctail bar apre alle 23.30.

E tutto questo solo per aver trovato il coraggio di raccontare delle storie.

– 7

Quando si aspetta tanto una cosa, sembra non arrivare mai.
Ma è vero anche il contrario.
Quando ci rigiriamo in mano qualcosa di nostro per parecchio tempo, non viene mai il momento di separarsene.
Se poi questo momento corrisponde al rendere pubblica una scelta che ci siamo rigirate in mente, nel cuore e nella pancia per un tempo ben più lungo di una gestazione, allora tutti i pudori si fanno avanti.
E quindi eccomi qui, a parlare di una cosa bellissima, che succederà tra sette giorni, in coincidenza con il compleanno di mia madre, ma che se dovessi pensare quando è cominciata farei fatica a non dire che c’è sempre stata.

Poco tempo fa un caro amico, rinomato giornalista e scrittore, mi ricordava di quando a otto anni, per intrattenerci durante un interminabile viaggio verso la Normandia, io e la mia amica Giovanna ci dilettassimo a scrivere un romanzo. Ricordo che scrivevo in un quadernino dalla copertina telata verde. Si trattava di una storia complicata e piuttosto avventurosa, di sicuro c’erano i cow boys, passione della Gio che al gabinetto di casa godeva della lettura della collezione di Tex di suo padre. Io l’avevo spuntata sul nome del protagonista: si chiamava Billy, come il mio gatto.
L’incipit di questo disperso capolavoro della letteratura, è rimasto indelebilmente scolpito nella memoria del mio amico, pare dicesse: “Eravamo in Piazza Trafalgar Square…”.

Ora è necessaria una piccola parentesi sulla Giovanna, che spero non me ne avrà. Prima di quel viaggio in Normandia – in Cinquecento, Ford Transit e tende ché erano ancora i vent’anni dei nostri genitori – io e la Gio avevamo vissuto un’esperienza piuttosta rara per due figlie uniche, rimasta per me negli anni a venire pietra di paragone di tutto il resto.
Suo padre, che aveva fatto il liceo in classe con mia madre, era partito per un anno a insegnare in Egitto e lei e sua mamma sarebbero rimaste a Milano. Io e la mia, un po’ provate dopo due anni di vita condivisa in una bella casa sovraffollata – meriterebbe un’altra parentesi, ma sarà per la prossima volta – eravamo state ben felici di andare a vivere con un’altra coppia mamma figlia. Così io e la Gio ci siamo trovate sorelle per un anno. Non so se lei ne fosse felice quanto me.
Ma io di quella cameretta condivisa ho un ricordo meraviglioso. I lunghi pomeriggi a costruire case di Barbie nelle due file parallele di cassetti blu sotto la finestra; scendere nel giardino condominiale per giocate senza guardiani; la merenda speciale di quando arrivava sua nonna Liliana e portava i krumiri; il Cebion che faceva le bolle di nascosto; ma soprattutto la sera, il momento del magone: nei nostri due lettini accostati chiacchieravamo fino a notte fonda, interrotte solo dal rumore del 33 giri di Grease che chiedeva di essere girato.
Parlavamo di tutto, dei nostri amori, molto di cinema. Io preferivo Paul Newman, lei Robert Redford. La Gio aveva già una passione, che poi è stata così brava da trasformare in mestiere.
Ma soprattutto inventavamo un sacco di storie, che l’estate successiva diventarono il nostro primo romanzo.

Ecco se devo pensare a un inizio, lo trovo solo in quelle sere al buio in una cameretta coi letti gemelli. Solo che la Gio è stata più brava di me e ha capito presto che poteva diventare un mestiere.
Io invece ci ho messo quarant’anni e faccio ancora fatica a dirlo ad alta voce: io invento delle storie. Mi vengono su quasi tutto quello che vedo e sento, anche su quello che annuso. E le ho sempre scritte, nei miei quaderni, e nei miei sogni. Le invento soprattutto pensando alle ragazze e ai ragazzi che le leggeranno.

E mentre tutti parlano di #SalTo per una brutta storia, nello stand di @Solferinolibri succede una cosa per me bellissima:

copertina del libro Il codice delle ragazze di Alessandra Spada #ilcodicedelleragazze #crac #alessandraspada
@Solferinolibri #ilcodicedelleragazze #SalTo