di fate, streghe e spazi per sé

a room of my own

Non è un momento facile per nessuna, nel mondo, e so bene di essere tra le più fortunate, quindi faccio disciplinatamente i miei esercizi di gratitudine; sopporto il freddo di questa primavera che stenta ad arrivare e le continue umiliazioni che vengono da essere, ancora, la straniera, ultima arrivata, e con troppi diplomi che danno fastidio a un sacco di gente.

Credo anche per estensione che mi stia un po’ bene, una bella strigliata all’ego, un interessante cambio di prospettiva: ho passato la prima, lunga, parte della mia vita a pensare che essere la brava studentessa mi avrebbe salvata, che prendere diplomi fosse la via migliore per una ragazza che voleva pensare con la propria testa, che poi avrei potuto fare quello che sognavo; ora mi ritrovo a sentirmi dire sostanzialmente che ho studiato troppo, che il mio profilo fa ombra ed è troppo caro, ma anche che i titoli italiani valgono qui circa quanto in Italia valgono le lauree di tante colf, domestiche, fattorini, arrivati nella penisola dall’altra parte del mondo.

Bene. Io però ho un progetto e stavolta non mi lascio sviare, ci ho messo talmente tanto a dargli voce, che ora non può tacere : io continuerò a scrivere storie e a insegnare a ragazze e ragazzi la nostra bella lingua.
Quindi negli ultimi quattro anni ho abbassato la testa, e mi sono messa al lavoro, volevano dei titoli di studio locali, li ho presi, macinar diplomi è la cosa che so far meglio no?!, l’ultimo dovrebbe arrivare a giugno.
Il percorso è tortuoso e di nuovo trovo il mio bel contrappasso, io che tuonavo indignata contro il baronato accademico e rifiutavo ogni compromesso carrieristico, ora accetto la supervisione delle mie lezioni da chi insegna la mia lingua senza averla mai parlata, convinta che da chiunque ci sia qualcosa da imparare.
Intanto ho cominciato a insegnare. Come avessi vent’anni corro da una supplenza all’altra, sono felice, ma è faticoso e ogni tanto mi chiedo se abbia fatto la cosa giusta a emigrare, soprattutto ora che non posso tornare quando la nostalgia si fa stretta attorno al cuore.
Così arriva una di quelle sere in cui piango girando il risotto e mio marito si rivela giusto un filo meglio di quello di Julia Child, almeno il mio si accorge che non può essere colpa delle cipolle; ma come da ventitré anni a questa parte, le sue buone intenzioni non trovano le parole giuste, anzi dalla sua bocca esce l’ultima frase che avrei bisogno di sentirmi dire (e parte del problema è naturalmente che manca di allenamento, non sono io d’abitudine quella da consolare).
Ecco in quel momento sono stata veramente a un passo dal trasformarmi nella strega Amelia e condire il risotto con l’antigelo. Ma per una volta ho capito che dovevo fermarmi alle intenzioni, buone, e trovare io una soluzione immediata ancorché provvisoria ai miei crucci, il maggiore dei quali guardacaso era di non avere da troppo tempo uno spazio per me. Vero che fior di scrittrici hanno cominciato sul tavolo di cucina e che col lockdown siamo tutte su questa stessa barca, ma io quella sera nel risotto ho letto che dovevo trovare una via d’uscita. E mi è andata bene.

Ora sono qui, in due settimane ho trovato una stanza, a un prezzo ragionevole, avevo tenuto da parte i soldi della borsa letteraria per usarli per il mio libro, gli ho dato una casa; con un contratto breve perché è un edificio in attesa di demolizione, è attaccato ai binari e c’è un progetto di trasformazione, ma io da casa ci arrivo a piedi in 15 minuti o se prendo il lungolago in 20. E fra un anno spero che il cantiere in casa mia sarà finito e avrò un angolo per me, o almeno sarà finita la pandemia e non saremo tutti appiccicati in zoom.

Intanto io mi prendo del tempo da sola e non aspetto che mi diano il permesso di lavorare alle mie storie.


Anzi, meglio che da sola, oggi mi ha bussato alla porta la mia vicina, per fare conoscenza, a distanza, : “Ciao, mi chiamo N, ho un atelier artistico in cima al corridoio, per la verità io lavoro in ospedale, ma dopo aver passato un burn out, ho capito che le donne hanno bisogno di uno spazio per sé, dove prendersi qualche momento di ristoro. Allora ho fondato Le temps des fées, il tempo delle fate, le donne vengono a prendersi un momento di pausa fra sorelle. E quando ho trovato quest’edificio ho pensato che potremmo cominciare da qui, possiamo restare tre anni, poi chi lo sa, magari cerchiamo un altro posto tutte insieme, se vuoi da me c’è già la macchina del caffé e del thé”

E la primavera si fa sempre più vicina.

Tutta ‘sta sbrodolata per dire che va bene tenere duro, resistere, aspettare che le cose si sistemino, ma non fa bene aspettare troppo prima di inseguire i propri sogni, a volte è meglio mollare e cercare qualcosa che ci faccia stare bene subito, prima di mettere l’antigelo nel risotto.