La strada di casa. O la ruota gira.

Venerdì l’Italia si godeva il ponte del 2 giugno, mentre qui al nord si lavorava e succedevano un sacco di cose, di quelle che cambiano la vita.
Il tutto mi ha lasciata un po’ tuonata e visto che qui il ponte è domani per Pentecoste, mi concedo forse di dormirci un po’ su prima di decidere che effetto mi fa.
La considerazione più profonda che mi viene da fare ora è che a me la vita vera arriva a ondate.
Sembra che non succeda nulla per un sacco di tempo. Io insisto, tiro il carretto fino allo stremo, corro come una matta da una parte all’altra e non smetto anche mentre picchio la testa contro porte chiuse.

Poi quando decido quasi di mollare, mi fermo un attimo e…la ruota gira, si mette in moto, e succede di tutto, tutto insieme.

Succede ad esempio che il 16 maggio sia lunedì, e io vada a trovare una classe in una scuola il riva al lago, che ha letto #ilcodicedelleragazze.
E succede che come sempre mi diverta e anche che la loro insegnante mi dica, ” sai è l’ultimo anno per me, ma purtroppo non so chi riprenderà le mie classi di italiano, il direttore non lo ha ancora comunicato”,
e io chieda: ” credi che sia il caso che gli mandi il mio dossier? L’ho già fatto l’anno scorso, non vorrei essere insistente”, e lei risponda: ” Mandalo, non si sa mai”.

sulla strada di casa

Poi due giorni dopo io parto per Milano, e non penso più a nulla. #gaiadeglialberi va al #salto22 e poi in giro per librerie e biblioteche. E mi piace così tanto che non vorrei far altro.
E comincio a chiedermi se forse la mia avventura svizzera non potrebbe anche ridimensionarsi. Potrei fare più spazio per i viaggi in giro per le scuole italiane.
E il pensiero rotola nella mia testa, sempre più insistente. Dal 2019 ho pubblicato quattro libri, e ancora faccio la scrittrice solo nei ritagli, dopo aver messo la cena in tavola per tutti e mentre mi affanno per cercare un posto in un paese che mi fa ancora sentire straniera.

E penso. Dopo sette anni se la Confederazione mi vuole deve mandarmi un segno, perché io di questa doppia vita sono un po’ stufa e voglio vedere le mie amiche che sono ancora più in Italia che qui.
E voglio portare Gaia a zonzo per quelle classi sgarruppate ma piene di vita, e scrivere la prossima avventura di Lin, Nina, Carlotta e Chiara. E andare al mare.
E il pensiero nella mia testa si fa una bolla di fuoco.
E così annuncio a mio marito che il prossimo autunno io non rincorrerò più supplenze a destra e manca, ma me ne starò di più a Milano e da lì chissà. Che se la veda lui coi ragazzi, sono grandi e lui è stato a zonzo per i primi dodici anni. E la mia vita è adesso.

Poi do un’occhiatina all’email della scuola. E la ruota gira.

E venerdì mattina ho firmato il primo Contratto a Durata Indeterminata della mia vita. È un contrattino, avrò solo due classi. Ma finché ne avrò voglia, insegnerò italiano e sarò nella scuola in riva al lago dove tutto è cominciato.
I miei figli si sono diplomati lì, ci abbiamo fatto le foto con la nonna e il vestito bello, in tempi che sembrano remoti, prima della pandemia.
Prendo il posto della prima insegnante di italiano di mio figlio maggiore. Lei che è stata la luce nel tunnel dei nostri primi giorni di scuola qui e che ora mi passa il testimone. E anche io comincio ad avere un posto con dei ricordi a nord delle Alpi. Un lavoro a cui posso andare a piedi camminando lungo il lago.

E nella stessa giornata, mentre in sala professori del liceo ritiravo e stringevo al petto il pacco dei primi compiti di maturità di cui sono responsabile – il che già di per sè accelerava il battito – suona il telefono:
– Bonjour, Madame Spadà? – voce femminile dal forte accento non francofono
– Oui, bonjour?
– C’est la Police de M ( e lì il cuore ha fatto due rimbalzi gola-talloni prima di arrestarsi per qualche secondo, mentre il video proiettore che mi hanno installato nel cervello il giorno del parto mandava immagini splatter di figli spiattellati sull’asfalto – quello che è a Brema per certe gare di bici di cui preferisco non sapere – o fatti a pezzi in vari modi – quello che è abbonato al pronto soccorso e sabato scorso ha passato la notte in ospedale sotto osservazione per trauma cranico – la mia ragazza per fortuna era localizzata a letto con l’influenza)
– Oui ?- rantolo
– C’est la maman de… ?( a quel punto non ho più sentito nulla e ho cercato la sedia più vicina per evitare di cadere come una pera in mezzo alla sala professori perdendo controllo del pacco di compiti, certa che il peggio stesse per venire.) …c’est pour les dossier…
– MADAME! Ma lei signora poliziotta dove ha studiato?! Ma non lo sa che non si chiama una madre senza iniziare la conversazione con “non è niente di grave”?! Ma sono vent’anni, dall’asilo nido, che quando arriva la telefonata della maestra che dice che non è niente di grave il mio videoproiettore parte comunque in full mode splatter, ma almeno io lo tengo a bada!
– Veramente volevo dirle che i dossier per la naturalizzazione dei suoi figli sono a posto e se passate a firmarli io posso mandare avanti la pratica di cittadinanza.

Ecco quindi, da venerdì io sono dipendente della Confederazione e la mia ragazza e i suoi fratelli sono più vicini a diventare svizzeri, perché qui i giovani hanno la cittadinanza dopo cinque anni di residenza.
Resta in sospeso la pratica del figlio in giro in bici, che come suo fratello ha visto bene di comunicare alla poliziotta, ” quello non lo vediamo mai”. Ma se non parte un supplemento di indagine per vagabondaggio, su segnalazione del fratello tredicenne, anche lui dovrebbe firmare a breve. E io dovrò trovar modo di far pace con questo paese che mi dà lavoro e diverrà Patria per i miei figli.

Ciò non toglie che il calendario scolastico abbia un sacco di vacanze e io continuerò a tornare in Italia ogni mese e magari ci porterò in gita i miei studenti. Intanto però la mattina per andare al lavoro farò questa strada:

cose di cui essere grata: la strada per tornare dal lavoro

E sarà più facile essere grata.

In cima al podio per una sera…

È successo che sono andata a vedere la mia pagina in una nota piattaforma, dopo circa un anno che non ci pensavo. Non è stato un anno facile per nessuno, ho avuto altro da fare, ma diciamo che il fatto è un’evidenza del mio come minimo non essere un’assidua promotrice del mio profilo social. Dato però che andando a mettere il naso tra le pagine ci ho trovato un bel mazzo di ottime recensioni e un primo posto in classifica, facciamo che io continuo a scrivere storie e a non occuparmi troppo dei social, che forse è meglio così.

di fate, streghe e spazi per sé

a room of my own
a room of my own

Non è un momento facile per nessuna, nel mondo, e so bene di essere tra le più fortunate, quindi faccio disciplinatamente i miei esercizi di gratitudine; sopporto il freddo di questa primavera che stenta ad arrivare e le continue umiliazioni che vengono da essere, ancora, la straniera, ultima arrivata, e con troppi diplomi che danno fastidio a un sacco di gente.

Credo anche per estensione che mi stia un po’ bene, una bella strigliata all’ego, un interessante cambio di prospettiva: ho passato la prima, lunga, parte della mia vita a pensare che essere la brava studentessa mi avrebbe salvata, che prendere diplomi fosse la via migliore per una ragazza che voleva pensare con la propria testa, che poi avrei potuto fare quello che sognavo; ora mi ritrovo a sentirmi dire sostanzialmente che ho studiato troppo, che il mio profilo fa ombra ed è troppo caro, ma anche che i titoli italiani valgono qui circa quanto in Italia valgono le lauree di tante colf, domestiche, fattorini, arrivati nella penisola dall’altra parte del mondo.

Bene. Io però ho un progetto e stavolta non mi lascio sviare, ci ho messo talmente tanto a dargli voce, che ora non può tacere : io continuerò a scrivere storie e a insegnare a ragazze e ragazzi la nostra bella lingua.
Quindi negli ultimi quattro anni ho abbassato la testa, e mi sono messa al lavoro, volevano dei titoli di studio locali, li ho presi, macinar diplomi è la cosa che so far meglio no?!, l’ultimo dovrebbe arrivare a giugno.
Il percorso è tortuoso e di nuovo trovo il mio bel contrappasso, io che tuonavo indignata contro il baronato accademico e rifiutavo ogni compromesso carrieristico, ora accetto la supervisione delle mie lezioni da chi insegna la mia lingua senza averla mai parlata, convinta che da chiunque ci sia qualcosa da imparare.
Intanto ho cominciato a insegnare. Come avessi vent’anni corro da una supplenza all’altra, sono felice, ma è faticoso e ogni tanto mi chiedo se abbia fatto la cosa giusta a emigrare, soprattutto ora che non posso tornare quando la nostalgia si fa stretta attorno al cuore.
Così arriva una di quelle sere in cui piango girando il risotto e mio marito si rivela giusto un filo meglio di quello di Julia Child, almeno il mio si accorge che non può essere colpa delle cipolle; ma come da ventitré anni a questa parte, le sue buone intenzioni non trovano le parole giuste, anzi dalla sua bocca esce l’ultima frase che avrei bisogno di sentirmi dire (e parte del problema è naturalmente che manca di allenamento, non sono io d’abitudine quella da consolare).
Ecco in quel momento sono stata veramente a un passo dal trasformarmi nella strega Amelia e condire il risotto con l’antigelo. Ma per una volta ho capito che dovevo fermarmi alle intenzioni, buone, e trovare io una soluzione immediata ancorché provvisoria ai miei crucci, il maggiore dei quali guardacaso era di non avere da troppo tempo uno spazio per me. Vero che fior di scrittrici hanno cominciato sul tavolo di cucina e che col lockdown siamo tutte su questa stessa barca, ma io quella sera nel risotto ho letto che dovevo trovare una via d’uscita. E mi è andata bene.

Ora sono qui, in due settimane ho trovato una stanza, a un prezzo ragionevole, avevo tenuto da parte i soldi della borsa letteraria per usarli per il mio libro, gli ho dato una casa; con un contratto breve perché è un edificio in attesa di demolizione, è attaccato ai binari e c’è un progetto di trasformazione, ma io da casa ci arrivo a piedi in 15 minuti o se prendo il lungolago in 20. E fra un anno spero che il cantiere in casa mia sarà finito e avrò un angolo per me, o almeno sarà finita la pandemia e non saremo tutti appiccicati in zoom.

Intanto io mi prendo del tempo da sola e non aspetto che mi diano il permesso di lavorare alle mie storie.


Anzi, meglio che da sola, oggi mi ha bussato alla porta la mia vicina, per fare conoscenza, a distanza, : “Ciao, mi chiamo N, ho un atelier artistico in cima al corridoio, per la verità io lavoro in ospedale, ma dopo aver passato un burn out, ho capito che le donne hanno bisogno di uno spazio per sé, dove prendersi qualche momento di ristoro. Allora ho fondato Le temps des fées, il tempo delle fate, le donne vengono a prendersi un momento di pausa fra sorelle. E quando ho trovato quest’edificio ho pensato che potremmo cominciare da qui, possiamo restare tre anni, poi chi lo sa, magari cerchiamo un altro posto tutte insieme, se vuoi da me c’è già la macchina del caffé e del thé”

E la primavera si fa sempre più vicina.

Tutta ‘sta sbrodolata per dire che va bene tenere duro, resistere, aspettare che le cose si sistemino, ma non fa bene aspettare troppo prima di inseguire i propri sogni, a volte è meglio mollare e cercare qualcosa che ci faccia stare bene subito, prima di mettere l’antigelo nel risotto.


Di cosa stiamo parlando?

Sono mesi che non scrivo, e sì che ne avrei avute di cose da dire, ma dato che un bel tacer non è mai scritto, e di questi tempi in troppi dan aria alla bocca e ginnastica alla tastiera, ho preferito astenermi.

Per altro non è che abbia tanto tempo, corro. Tenere aperta la scuola pubblica è un atto di civiltà che, oltre alla volontà politica, richiede gente che corra e io mi son ritrovata in una squadra in cui bisognerebbe essere a vent’anni. Quella degli ultimi arrivati che vengono chiamati per tutte le supplenze. Bello è, oggi ad esempio mi tocca l’ultima ora del venerdì pomeriggio, la più ambita.
Di solito torno a casa completamente tuonata, se l’immagine stanca ma felice ha un corpo, quello è il mio. Un po’ meglio degli inglesi sulla spiaggia di Dunquerque, almeno qui non bombardano dal cielo.

Alle 6.00 quando suona la sveglia, se la sento, dò un’occhiata ai giornali italiani. Stamattina pensavo di aver bevuto troppo. 1000 morti e parliamo del Natale?

È il quinto Natale da emigrati, tornare per le feste è uno dei fondamenti, o meglio delle fondamenta, le basi che ci hanno permesso di allungare le radici fin qui. Se in questi cinque anni abbiamo potuto anche solo pensare di mettere un po’ di radici a nord delle Alpi è perché quelle vere, quelle che sentono il profumo del Mediterraneo, erano ben nutrite e concimate. L’ho sempre detto, io posso stare qui se torno in Italia tutti i mesi.

Di più, ne ho fatto la base della mia nuova identità migrante. Io qui sono un ponte, insegno italiano e sono presidentessa di una prestigiosa associazione di promozione della lingua e della cultura italiane, (che si è appena aggiudicata un bel finanziamento per realizzare le celebrazioni dantesche del 2021 (!), sì alla faccia del Covid sto diventando piuttosto brava a scrivere victory speech). Ho vinto la mia prima borsa letteraria in quota italofoni.
Insomma ho mille e millanta motivi per voler varcare la frontiera il 19 dicembre. E altrettante possibilità di scrivermi una scusa.

Non ho fratelli, né sorelle, mia madre vive da sola, so che se provassi a dire che ho diritto alle deroghe per gli anziani soli e andarla a trovare per Natale, mi risponderebbe con uno sguardo più efficace del gesto dell’ombrello, chi la conosce può immaginare. Ma il finanziere alla frontiera non la conosce, potrei passare.

Ho in casa un adolescente che sta diventando esperto di DPCM, temo che legga più quelli dei piani di studio delle sue possibili future università. Diciamo che sta sviluppando competenze trasversali, utili qualsiasi strada decida di intraprendere, impegnative quando si tratta di discutere sulla destinazione delle vacanze.

Tutto queste righe per dire che sì, gente, vi capisco, la nostalgia in casa nostra si taglia col coltello; il Natale ci piace da matti, aspettiamo a fatica dicembre per mettere le lucine, accendiamo le candele tutte le sere e mia figlia ha la playlist Christmas hit fissa su Music. Ci manca l’Italia, gli amici, d’infanzia, i nonni, il cibo, la fidanzata, il profumo di casa, la lite tra panettone e pandoro, mio marito che tuona sono ateo, è tutta un’abbuffata consumista, ma poi non si fa sfuggire una portata; la sfilza di aperitivi di lavoro, i vicini della montagna e quelli di Milano, andare a sciare, il discorso del Presidente e il walzer tamarro da Vienna, Babbo Natale che viene giù dal camino anche se nessuno vuole più crederci, i segnaposti di cartoncino rosso con la scritta d’oro che sono sempre nello stesso cassetto e ogni anno ci ricordiamo di chi è stato con noi a Natale, mio suocero che il 22 dicembre affetta prosciutto con la Berkel come non ci fosse un domani e i miei figli che ne mangiano senza ritegno fino a star male; il giorno dopo quando riesco a mandare tutti a sciare e restare a leggere sul divano, la sera quando si litiga per scegliere il gioco di società, tra Catan e Carcassonne e poi per chi ha vinto e chi ha barato a Ticket to ride.

Ma a sto giro, e non dovrei essere io a dirlo, il gioco di società è uno solo, possiamo discutere del nome, restiamo vivi, oppure siamo seri, siamo tutti nella stessa barca, oppure è la pandemia ragazzi

Ma io propenderei per qualcosa che ci ricordi che siamo tra coloro che sono fortunati, se siamo sani, abbiamo una casa dove passare il Natale, del cibo da mettere in tavola e magari del vino per accompagnarlo, una connessione internet e uno schermo per salutare chi sta lontano, la bolletta dell’elettricità e del gas pagate fino all’anno nuovo, un lavoro a cui tornare dopo le vacanze, la possibilità di aiutare chi sta meno bene di noi. Mi sembra già tantissimo e cerco di ricordarmelo ogni giorno. La mia lista della gratitudine si scrive ormai da sola.

Vi voglio bene, mi mancate, ma resto qui; passerà, faremo cose belle e ci assembreremo tantissimo, tutti abbracciati a festeggiare.

La cucina di Francoforte DUE

È partita,
È arrivata,
Si è portata dietro dodici sedie e un tavolino, non li hanno neanche fermati alla frontiera.
Non c’è posto per niente di tutto ciò. E non abbiamo ancora cominciato i lavori. Sarà un bel cantiere.

All’annuncio: ” ci metterò dieci anni a restaurarla”, ho ricominciato a fare lo struzzo ché ci ho molte lezioni da preparare. Ho donato manodopera adolescente per lo scarico.

Buona domenica.

La cucina di Francoforte

Non scrivo mai del mio matrimonio, al mio consorte non piace, e lo rispetto. Quando però ci si sposa da giovanissimi e nel bene e nel male si resta insieme ben oltre la giovane età, succede che in alcune abitudini, comportamenti, modi di fare, non sia più così semplice dire dove comincia una persona e dove finisca l’altra.
Nel nostro caso poi molti elementi complicano questa distinzione; abbiamo studiato nella stessa università, con gli stessi professori, abbiamo lavorato insieme per quasi vent’anni, abbiamo fatto e disfatto case nostre e per altri discutendo su ogni interruttore fino allo sfinimento.
Abbiamo un modo di fare progetti insieme che sembriamo Sandra e Raimondo che si rubano la coperta sul lettone. Condividiamo la perversa passione per gli annunci immobiliari.
Strada facendo io ho scoperto che quell’immaginarmi storie per ogni casa che vedevo, poteva diventare immaginarmi storie e basta. Non ho sempre bisogno di passare dai tempi lunghi del cantiere per vedere il risultato, mi bastano le parole, a volte i disegni. Ho scelto di guadagnarmi da vivere altrimenti. Anche se le abitudini sono dure a morire, ufficialmente fare l’architetto non è più il mio primo mestiere.

Questo cambio di prospettiva ha avuto immediate conseguenze nel mio modo di fare progetti col mio consorte – sì anche se mi son chiamata fuori, abbiamo sempre una casa da ristrutturare insieme e viviamo perennemente in cantiere.
Con libera e serena determinazione ho affermato qualche mese fa:

Sai che c’è? A me non va più di discutere con te su ogni interruttore, l’ho capito che a te serve il contraddittorio per pensare, ma per me non è così, mi sfinisce. Quindi in questa casa fai quello che vuoi, tanto lo sai cosa mi piace, io mi tengo qualche scampolo di decisione, disegno le piastrelle, qualche tappezzeria, ma soprattutto decido la cucina. E non fingere che tutto il lavoro ricada su di te, tanto lo so che comunque toccherà a me avere a che fare con gli esseri umani, chiedere i soldi in banca, tenere buoni i vicini, controllare la tabella di marcia, avrò già abbastanza da fare così. Dovresti essere felice, delega e fiducia completa.

Per parecchi mesi il mio alacre consorte ha disegnato ogni chiodo della nostra casa. Ogni tanto mi faceva vedere, io proponevo qualcosa e lui rispondeva che come sempre avevo fatto lievitare il preventivo di cinquantamila franchi.
Nella sua foga di avere tutto disegnatissimo, regolarmente si avventurava nel progettare la cucina, ma io difendevo ogni piastrella, inflessibile come neanche Giovanna d’Arco:

-No, non mi avrai, sono ventitré anni che facciamo case raccattando al mercatino, dalla zia, arronzando e sistemando e non finendo mai una cosa prima di traslocare. Questa volta voglio una cucina indistruttibile e funzionale, da battaglia, la voglio in inox, lavabile col lanciafiamme. Non come al solito montata da noi, che poi rimangono gli spifferi dove mi si infila il rosso d’uovo mentre preparo la torta al cioccolato 9 minuti e lo ritrovo mummificato anni dopo nel trasloco (tutto vero).
E non mi imbonire dicendo che è una rivendicazione poco femminista , alla fine quella che passa più tempo in cucina sono comunque io.
Quindi la scelgo io, da qualcuno che di mestiere fa cucine, non sarà riciclata, rappezzata, fattene una ragione, potrei anche finire a scegliere la più amata dagli italiani, verranno dei professionisti a montarla e tu non avrai voce in capitolo, perché non puoi fare a meno di fare il raccattarumenta. Quando disegnerò il pavimento, potremo parlarne, forse parteciperai alla scelta dei colori delle piastrelle, se ti comporti bene.
Ma soprattutto la voglio nuova, almeno quella, almeno una volta in vita mia.

C’è da dire che la faccenda del comprare tutto al mercatino mi vede complice se non mandante da più di vent’anni. Prima era un nostro innocuo passatempo; poi è passato in versione 2.0 e io ho dimostrato una preoccupante fortuna nel vincere le aste online. Ho smesso quando una venditrice di lampade danesi me ne ha mandata una in omaggio come best buyer of the year e ho temuto che da lì al video poker il passo fosse breve, per fortuna compravo per i nostri clienti.

Il mio consorte quindi sa bene quali tasti toccare.
Ci sarebbe una cosa?
– Cosa?
– Ho trovato in vendita una cucina di Francoforte…

Per le persone normali, la cucina di Francoforte potrebbe essere un modo di cucinare i wurstel. Per gli architetti della nostra generazione e almeno un paio di quelle precedenti, è LA CUCINA.
Se i normali la cercano su internet, non la trovano per nulla speciale.
Una semplice cucina componibile come tutte oggi.

Cucina di Francoforte del 1926, ben conservata

Solo che le cucine oggi sono componibili perché nel 1926 Margarete Lihotzky – la prima austriaca a potersi dichiarare architetta, e pure femminista – ha disegnato una cucina standardizzata per alcuni quartieri di Francoforte, le Siedlungen di Bruchfeldstrasse, Praunheim e Ginnheim, progettati da Ernst May.
Non è una cucina componibile, è l’archetipo delle cucine componibili, l’ha progettata una donna e la si trova al MoMA di New York e in parecchi altri musei.

Ho alzato gli occhi al cielo e taciuto, mentre per una settimana l’internazionale dei raccattarumenta ha seguito con trepidazione la nostra asta; dall’Italia mio suocero si è detto disposto a ospitarla in campagna se non avessimo trovato posto da noi, poi in qualche modo si fa, ci vorrebbe un appartamento di sessanta metri – ho temuto lo comprassero apposta;
il collega berlinese ha messo a disposizione il furgone per andarla a ritirare, non vuoi mai che te la rovinino nella spedizione;
l’altro collega svizzero, che da anni la studia e la insegna, sembrava pronto a smantellare la sua cucina per farle posto, per fortuna sua moglie è solida.
La cucina di Francoforte è stata oggetto di conversazione anche durante il primo caffé al bar dopo mesi con amici non architetti, festeggiavamo la partenza di tutti i figli per gli scout e l’inizio di un weekend che è finito piuttosto alcolico, chi per festeggiare, chi per dimenticare la cucina di Francoforte.

E ieri sera, ahimé, mio marito si è aggiudicato l’asta al costo di una cucina componibile svedese che arriva nei cartoni piatti. ( il che per altro significa inequivocabilmente che è molto sgarruppata, altrimenti se la comprava il MoMA)
Solo che questa cucina è a Colonia e tocca andarla a prendere, qui lo spazio per accoglierla è ancora da costruire, aspettiamo i permessi dal comune.
So già che finiremo a dormire in macchina per farle posto. Intanto padre e figlio stanno organizzando un tour, che quando ci ricapita di andare in Germania col furgone, possiamo passare in un sacco di robivecchi e ciclisti. L’itinerario prevede anche un passaggio a Berna alla cinque giorni di extinction rebellion, perché a diciottanni le priorità sono molte. Io ho detto che se si fanno arrestare, li lascio lì, loro e la cucina e mi compro a rate la più nazional popolare delle cucine.

Scodelle sospese

Quando ormai tre anni fa abbiamo deciso di vendere la nostra casa a Milano non è stato facile, non esattamente una scelta, ma una necessità. Gli affitti qui sono altissimi, mentre sono ottime le agevolazioni per mutui eterni, per chi compra una casa che non sarà mai veramente sua, chi può fa così. La nostra grande e bella casa milanese, sul mercato svizzero valeva giusto l’anticipo. Ma noi avevamo incontrato una casa da adottare, che ci assomigliava come nessuna. Era, è, sgarrupata, da rimettere a posto, quindi potevamo permettercela, noi ci adattiamo parecchio. Vicina alle scuole, alla stazione per tornare in Italia, al centro, ma anche alla campagna ché qui è tutto piccolo. Era piccola anche lei, non ci sono camere per tutti. Ma la scelta era semplice, o più camere o un micro giardino, e noi non abbiamo avuto dubbi.

E ora, in questi tempi di confinamento, le scelte non sembra più casuali. Ma inestimabili fortune, Siamo davvero estremamente fortunati. Anche se siamo pigiati e insofferenti. Possiamo seminare il prato e accendere un fuoco, ma anche vedere le persone che passano sul marciapiede, gli occhi all’altezza delle nostre insalate – i miei familiari si irritano, siamo veramente in strada, ma per me è il compromesso perfetto, anche il rumore delle auto mi sembra bellissimo di questi tempi. Dopo quattro settimane, la mia amica è passata tornando dal supermercato, è scesa dall’auto il tempo di depositarmi un cestino di fragole sul muretto, ci siamo mandate dei baci a distanza, ha visto i nostri capelli scompigliati. Il mucchio del compost orgoglio di mio figlio. Il lillà in fiore. Non abbiamo violato nessuna regola.

Otto il riccio

Da quando è finito il freddo, abbiamo messo fuori le scodelle dei gatti, davanti alla finestra del seminterrato. Loro sono al riparo, noi evitiamo discussioni su chi debba raccogliere i crocchini dal pavimento.
Il servizio di pulizia fuori è efficientissimo. Turni regolarissimi. I titolari vengono serviti all’ora stabilita, se sgarriamo anche di poco le manifestazioni di protesta arrivano al saccheggio.
Mangiano voraci, ma si saziano presto, convinti di poter tornare per un secondo giro, partono per la passeggiata serale.
A quel punto passa il gatto della vicina, a casa sua si mangia benissimo, ma sempre meglio controllare che si sa che la scodella del vicino…
Cala la notte ed arriva il più simpatico della compagnia, ballonzolante e spudorato, Otto il riccio spazzola tutto quello che trova, per essere sicuro di non perdersi nulla, entra a metà nelle scodelle, se è il caso le capotta.
Credo che settimana scorsa ci sia stata una resa dei conti, il gatto Vento ha chiesto a gran voce di poter rientrare e si infilato diretto nel lettone sotto la mia ascella. Da allora io ho aggiunto una scodella piena e quando arriva Otto, Vento resta a guardarlo da sopra il tavolo, a distanza di sicurezza, fino a che satollo Otto se ne va a balzelloni.
Noi lo osserviamo immobili, a luce spenta, con il naso contro il vetro della finestra all’altezza del terreno. Una volta ho cercato di fargli una foto, ci ha visti e si è appallottolato. Chi glielo spiega ora a Otto che le macchine ricominceranno a circolare e i suoi aculei nulla possono contro un pneumatico.

25 Aprile

Oggi è il giorno più difficile, dovrei essere a Milano, al momento forse a tavola, preparandosi per il concentramento delle 14.00 al Planetario. Punto.
Le uniche eccezioni tollerate sono state nel 2015, eravamo alla Rotonda della Besana per la mostra sul 25 Aprile a Museo dei Bambini e il 2016, andavamo a scuola, c’erano gli esami, non potevamo permetterci di perdere un giorno.

Per il resto, per me, il 25 Aprile è a Milano.

Ascolto i racconti dei partigiani alla radio. Quest’anno qualcuno in più manca all’appello, se l’è preso il COVID. Già il tempo corre veloce di suo, ora ci si mette pure il virus a toglierci pezzi di Storia. Tocca tenercela stretta per passarla in staffetta ai ragazzi di oggi.

E niente, oggi la nostalgia non si taglia neanche col coltello del pane, neanche con le mie liste della gratitudine.

Sono grata di essere sana, sono grata che lo siano i miei cari, sono grata che la mia città sia stata liberata settancinque anni fa.

Ma diamine ora bisogna che si trovi il modo di poter tornare a varcare le frontiere, tutti prudenti, tutti sani, ma tutti insieme.

ANNULLATI

Nei giorni scorsi il mio ruolo di animatrice del micro villaggio vacanze cominciava a starmi stretto. Mi sembrava di non aver mai diritto a un momento di distrazione, o peggio, di concentrazione su qualcosa che non fossero i miei compagni di viaggio, di cui dovevo occuparmi oltre che per le esigenze fondamentali, igiene e approvigionamento, anche di mille necessità organizzative. Notavo con fastidio crescente, che quando il tempo non era organizzato o programmato da me, l’apatia riempiva il campo.
Mentre a me si allungava la lista di cose che avrei voluto fare in una giornata che comunque non bastava mai, a loro si allungava il numero di ore sdraiati o persi in uno schermo.
Io scalpitavo, pensando: potresti disegnare, suonare, leggere, imparare qualcosa, innaffiare l’insalata, cucinare, riordinare la libreria, la camera, almeno l’armadio…
Loro arretravano sempre più verso uno stato di letargo. Non tutti e tre allo stesso modo o nelle stesse quantità, ma nel corso della giornata il contagio apatico toccava tutti, l’impressione che anche il compito domestico più semplice fosse insormontabile, l’energia nella lamentela aumentava: ancora devo apparecchiare? Ma tocca a lei/lui, non è giusto…
A sera e mattina la litania: sono stanco/a…
E la mia tolleranza veniva erosa un pezzo alla volta.

Poi, stamattina, ho ricevuto un’email. Un buona notizia, ho pensato. Mi avrebbero rimborsato il costo del biglietto di un concerto che sapevo da mesi che non ci sarebbe stato.
Annullato.
Ma era davvero una buona notizia?
Da settimane combattiamo virtualmente con call center esausti, per cercare di recuperare gli acconti di vacanze e campi estivi già pagati. Nella maggior parte dei casi ci si perde comunque qualcosa. Quindi sì un rimborso è una buona notizia di questi tempi.

Ma quante cose sono state annullate nell’ultimo mese?
Ho provato a fare una lista.
– l’appuntamento dal dentista del 23 marzo. Era atteso da anni. Per una ragazza di sedici anni il momento in cui si toglie l’apparecchio è un traguardo sofferto. Una stagione che si chiude lasciando indietro imbarazzi e disagi, e una che si apre piena di promesse e sorrisi. Promessa non mantenuta. I dentisti sono ad alto rischio, non si sa quando riapriranno. E comunque togliere l’apparecchio senza poter andare a scuola sorridente, non ha lo stesso sapore.
– vacanza studio in Inghilterra. Avrei dovuto versare l’acconto entro il 30 marzo. Non abbiamo perso un soldo, quindi non l’abbiamo neanche contata tra le cose annullate. Ma dove lo mettiamo il tempo speso a scegliere la scuola giusta? La gioia di trovarne una che rientrasse nel nostro budget in cui si potesse fare teatro tutti i pomeriggi? Chissà cosa si era immaginata, la prima vacanza da sola, una tappa indimenticabile. Annullata.
– dieci giorni dopo suo fratello sarebbe dovuto partire per Londra, il nostro regalo per i diciottanni. Una caccia al tesoro lunga otto mesi, le nonne a novembre gli hanno regalato computer e Leica, il nonno il suo scanner per le pellicole e noi una settimana di corso di fotografia al London College of Art. Il corso ufficialmente non è ancora annullato. Il biglietto aereo non si può cancellare. Ma come pensare che a luglio possa andare a Londra. Altro grande pezzo che salta chissà a quando, il corso era per 16-18 anni, quelli non tornano indietro.
– vacanza in Bretagna. Il suo amico, quello con cui ha pranzato tutti i giorni dall’inizio della scuola, due giorni a casa nostra e due a casa sua, lo aveva invitato. Per la prima volta due settimane senza di noi, su un’isola selvaggia, con la famiglia del suo amico. Ci sembrava tanto tempo, era lontano, ci abbiamo pensato parecchio, parlato di tutti i dettagli, fino al fatto che avrebbe dovuto mangiare quello che c’era senza storie, ma lui era super convinto e felicissimo, abbiamo detto sì. Annullato.
– le nostre vacanze di Pasqua, volevamo tornare a casa nostra, in montagna, in Italia, avremmo scritto e riposato, senza il figlio minore, tra gli adolescenti era montata la ribellione, io resto qui o al massimo vado a Milano, perché se resta lui non posso restare anche io… discussioni faticose che consentono di crescere, mettersi alla prova, meritare gradi di libertà. Tutto annullato,
– la band che gli piace tanto si sarebbe riunita per un ultimo concerto dopo 10/20/1000 anni non lo so, ma so che ci teneva un sacco, si era messo da parte i soldi per il viaggio fino a Berlino, un weekend desideratissimo, immaginato in ogni dettaglio. Annullato.
– gli scout per l’anno di noviziato prevedono una sola grande attività: l’organizzazione e l’autofinanziamento di un viaggio. Ci lavoravano da mesi, prima la proposta, ciascuno aveva scelto una destinazione e preparato una presentazione per convincere gli altri. E lei li aveva convinti, sarebbero andati in Svezia. Avevano deciso che l’aereo inquina troppo, e loro sono scout, sarebbero andati in treno. Poi in bici, bus, traghetto. Ostello e tenda. Avevano fatto i conti, itinerario e budget, ci avevano lavorato per molti sabati mentre pulivano e imbiancavano la loro tana. Il noviziato scout è un anno importante, il passaggio da quando partecipi ad attività organizzate da altri, ad organizzare attività per gli altri, dall’avventura al servizio secondo i programmi di Baden Powell. Annullato anche quello.

E la lista continua, con la scuola chiusa e la primavera alla finestra.
E mentre noi adulti ci arrabattiamo, preoccupati di non perdere troppi soldi e di immaginarci modi per continuare a lavorare, loro vedono annullarsi uno dopo l’altro, progetti in cui avevano riposto sogni, speranze, energie.

E mi chiedo quanti annullamenti possa sopportare un adolescente, prima di sentirsi annullato.
E guardo con occhio diverso, il rifugiarsi sotto le lenzuola.

Lavoratori essenziali

La premier neozelandese Jacinda Arden in questi giorni ha definito la fatina del dente e il coniglio di Pasqua essential workers, ma ha anche spiegato ai bambini del suo Paese che in questi giorni Easter Bunny potrebbe avere qualche difficoltà a raggiungere tutte le case, perché anche lui deve restare in quarantena coi suoi coniglietti, di avere quindi pazienza.

Noi siamo stati fortunati, quest’anno la caccia all’uovo è stata tra le insalate