Riassunto in immagini delle prime tre settimane di quarantena. E poi basta, solo disegni e favole.
Oggi è martedì 7 aprile, sono le 18.01, e io sono molto fortunata.
Siamo a metà della terza settimana di quarantena, stamattina sono andata a fare la spesa al solito supermercato. Avrebbe dovuto essere solo una perlustrazione per rinforzare le scorte fatte dieci giorni fa dal grossista per ristoranti.
Dal grossista avevamo cercato di resistere all’ansia per non passare da accaparratori, ma un pacco da cinque chili di spaghetti vale più di un ansiolitico, e con due adolescenti e un ragazzino in crescita in casa, non è neanche una grande scorta. Era la seconda volta che ci andavamo da quando siamo emigrati, arrivando presto si trova anche il pesce a prezzi italiani, un vero lusso. Anche loro hanno penuria di disinfettanti, la carta igienica è finita la prima settimana, ma stanno riassortendo tutto. L’unica controindicazione è la dimensione delle confezioni, ma l’inizio della quarantena ha portato l’organizzazione della zoom room nel seminterrato, l’unica stanza con presa di rete e porta, che ora convive con un’organizzatissima dispensa con tanto di inventario, su cui è una soddisfazione scrivere: spaghetti 5kg.
Quindi la dispensa è ben fornita, ma arriva la Pasqua e non vorrei restare senza frutta e verdura. Così oggi ho voluto fare un tentativo di normalità, tornare al supermercato vicino a casa, che ci è sempre sembrato deludente, e abbiamo per cinque anni integrato con la spesa dall’Italia, ma che forse, mi son detta ieri sera, può bastare anche da solo. E così è stato.
Sembra poco, ma per me è stata una scelta importante.
L’ansia in ciascuno prende le forme più disparate. Sappiamo che la corsa all’accaparramento di cibo è una delle reazioni primordiali più diffuse. A casa nostra alla chiusura delle frontiere è diventata l’idea che non avremmo più avuto la pasta buona, l’olio, il grana. Da qui il pacco da 5kg, ma anche l’inventario, che ci ha rassicurati sulle scorte d’olio, ma inquietati su quelle di vino. Perché qui in quarantena siamo a casa a tutti i pasti, e visti i tempi un mezzo bicchiere di vino non si nega neanche agli adolescenti, almeno il weekend, e la nostra cantina si è sempre rifornita in Italia.
Tutto ritorna lì, a sud delle Alpi, a casa. Di continuo.
La mia vita è stata da sempre, fin da bambina, fatta di prove di equilibrismo; appena mi adattavo alle situazioni più improbabili, paf che partiva nuovo la giostra, altro giro altro regalo, spesso non bellissimo, quasi sempre troppo per le mie spalle.
Non sto a fare la lista, ma la mia ricerca di equilibrio e a lungo di normalità, è lunga quanto la mia vita; poi per fortuna ho capito che la normalità non è cosa, e ho cercato solo un equilibrio.
Cinque anni fa ho pensato di poterne costruire uno in movimento, che anche la fissità non è nel mio destino – a quindici anni avevo già cambiato quindici case, roba da farne una professione. Non era stato facile, anche molto doloroso, ricominciare da capo in un Paese e una lingua non miei. Ma ne vedevo la fortuna, le opportunità per i miei figli, e con un po’ di sforzo anche per me. Ma la mobilità era condizione necessaria. Io posso resistere qui se torno ogni mese in Italia, dicevo. Siamo un esperimento sociale, credevo. Stiamo fondando un nuovo tipo di cittadinanza, i piedi da una parte, le radici dall’altra, il cuore in viaggio.
E ho iniziato la vita della supereoina, in incognito senza identità a nord delle Alpi, dove anche i miei titoli di studio, ancòra di salvezza che mi hanno sempre rassicurata, qui faticano a essere riconosciuti, oppure sono considerati troppo ingombranti; grandi soddisfazioni in patria, dove la scelta matta di mettermi a scrivere storie per ragazzi ha trovato orecchie contente di ascoltarle.
Poi a un certo punto, pochi mesi fa, un felice cortocircuito.
Io da parte mia ci avevo messo un bel po’ di pazienza e umiltà (tipo ricominciare a dare esami all’università dall’altra parte della cattedra, che se non vi vanno i miei titoli italiani, io me li prendo svizzeri), avevo seminato ma l’universo mi ha concimato il terreno, e il raccolto ha cominciato ad arrivare : ho vinto un borsa letteraria Pro Helvetia, una cosa qui molto prestigiosa.
Era vero, potevo cambiare mestiere, fare la scrittrice, insegnare arte e italiano mi avrebbe permesso di mettere il pane in tavola e conservare tempo per scrivere, disegnare, e tornare a casa tutti i mesi.
Forse è possibile, tutto si tiene. Niente più vita in incognito.
La felicità a un passo,
solo ancora qualche migliaio di pagine da studiare, un impossibile esame di dictée francese, ma non saranno questi gli ostacoli che mi spaventeranno.
E invece…
Invece COVID19.
E la frontiera diventa realtà. Strappo nel cuore.
Ero a Milano fino al 22 febbraio. Abbiamo fatto tutto quello che ci rende felici e non andrebbe fatto in pandemia, cinema, musei, pizzeria, parco giochi, librerie, aperitivi con gli amici, tanti tanti mezzi pubblici, poi abbiamo capito
Tornati qui, alla televisione la conferenza stampa a reti unificate da Berna, in tre lingue dicevano: ” per venire incontro alle esigenze delle imprese, la quarantena per chi è stato in contatto con pazienti positivi, sarà ridotta a cinque giorni”
5 giorni. le esigenze delle imprese. siamo carne da lavoro. non votiamo, paghiamo le tasse, lavoriamo, e basta.
Due settimane di follia. Mi sono messa in auto quarantena. Ho litigato con tutti quelli che non volevano capire. La pazza del quartiere. Ho chiesto a mia madre di venire qui, mi ha risposto: “meglio restare chiusa in casa mia che correre il rischio di non poterci tornare”.
Giovedì 12 marzo ho annunciato: ” voi domani andate a scuola e svuotate gli armadietti, poi restate a casa, non mi importa cosa decide la Confederazione, noi impariamo dall’Italia. La nonna è in quarantena, noi anche.”
Nel pomeriggio mi chiama un’amica, come me in tirocinio in un liceo, come me i genitori in quarantena in Italia, in più lei ha il marito biologo che non le nasconde nulla, : ” oggi al collegio docenti hanno annunciato che c’è un professore positivo, ma non dobbiamo dire nulla ai genitori, dobbiamo andare avanti, non si chiude”.
Credevamo di impazzire.
La sera stessa mio marito ha ricevuto l’allert del Politecnico, chiuso il campus con effetto immediato, si passa alla didattica a distanza. Ma il Politecnico ha i virologi, loro la sanno più lunga, o forse sono più preziosi. Gli altri continuino a lavorare.
Quel weekend è arrivato l’annuncio, finalmente, hanno chiuso anche qui.
E io ho cominciato a piangere, tutti i giorni.
Voglio andare a Milano. Il mio posto non è qui.
Cosa ci faccio con tre adolescenti malmostosi, al posto di essere a fare la spesa a mia madre? E portarla a chi non può?
Perché non sono lì a cucire mascherine per tutti?
Ogni giorno l’istinto di sfondare un posto di blocco come Telma e Louise, diretta verso sud.
Sono passati i fatidici quattordici giorni, mia madre sta bene, la mattina si veste, si trucca e si mette gli orecchini per rispondere alle mille riunioni in video. Ha chi le porta la spesa, lei la disinfetta fuori dalla porta, ha smesso totalmente di uscire. Le didattiche a distanza sono piovute sulle nostre teste, 6 didattiche per 5 persone, mancano solo i gatti. Ne appalto una, la nonna aggiunge alla sua agenda i compiti con il nipote. Alle 9.00 primo collegamento video.
Faccio un programma, organizzo le truppe.
Mi dò una regolata. Comincio a fare ogni mattina la lista delle cose per cui devo essere grata.
Piangere non serve. Alla frontiera mi blinderebbero.
Ricomincio una vita schizofrenica.
Di giorno animatrice del nostro micro villaggio vacanze, studio, gioco, sport, menù equilibrato, chiamate agli amici lontani, lavori domestici, piantiamo l’insalata nell’aiuola.
Di notte torno in Italia. Tutte le notti.
Prima solo a Milano, da mia madre; poi ho cominciato a viaggiare, a venirvi a trovare tutti, gli amici in Toscana, i cugini in Lazio, le compagne di scuola in Sardegna.
Faccio molto, ma non scrivo. Forse per la prima volta nella vita, sono senza parole. Sto.
Avrei un libro da finire, dovrò darmi una regolata anche su quello, la storia c’è già e le protagoniste mi stanno un sacco simpatiche, potrebbe essere un sollievo, ma io non so se voglio essere sollevata.
Un altro libro ha posticipato l’uscita. Mi chiedono di partecipare a mille iniziative, mi sembra bello, provo a fare un video. Lo riguardo e penso che rischio l’istigazione al suicidio.
Scusatemi. Non sono pronta. Sono sradicata.
Ci sto lavorando e le parole torneranno, ma ho bisogno di parole nuove, stanno germogliando, in fondo è la stagione giusta.
Ci sarà bisogno di ricostruire, allora ci sarò, ricostruire è proprio nel mio genere.
Ma per il resto, perdonatemi. Sono disponibile a leggere storie, fare molti disegni, confortare per telefono, cucinare cose buone, guardare film, leggere istruzioni di giochi complicatissimi, ma non riesco a scherzare sul virus, neanche troppo a parlarne.
Ora sto resistendo. Poi, forse, potrò raccontarlo.